Intervista a Sofia Omar (di Marco Girardo)

Una bella sfida, non c'è dubbio. Ci riferiamo a quella che sta affrontando Sofia Omar, HR Manager di una fra le più innovative agenzie di comunicazione creativa d'Italia, la Young Digitals di Padova. Una bella sfida perché, nell'epoca della cosiddetta "fuga dei cervelli" – dall'Italia, s'intende – l'azienda veneta importa invece talenti dall'estero. Li richiama a Padova per riuscire a esportare meglio il "Made in Italy" e i grandi brand nei mercati emergenti (o già emersi, a seconda dei punti di vista, considerato che parliamo anche di Cina e Russia). Sarà Sofia a raccontarci perché in casa Young Digitals hanno deciso di andare a caccia di talenti in Rete in ogni angolo del mondo. E soprattutto quanto un approccio multiculturale alla gestione delle risorse umane sia indispensabile nell'attuale contesto competitivo.
Prima, però, è interessante capire quanto sia in linea l'approccio al diversity management di Young Digitals con la storia dell'azienda veneta, fondata solo cinque anni fa da tre giovani startupper, all'epoca poco più o poco meno che trentenni. Guido Ghedin, Marco Pezzano e Michele Polico si sono incontrati nel 2010 ai Young Digital Lab, dei laboratori per insegnare le nuove tecniche di digital e social media marketing.
 
 
Anche a partire da quell'esperienza e praticamente senza finanziamenti bancari è stata fondata l'agenzia Young Digitals. Obiettivo: lavorare su progetti di comunicazione, dalla strategia all'implementazione, incluse la creatività, la produzione di contenuti foto e video e la gestione di canali in più lingue. I primi clienti erano già di standing elevato: da Trussardi a Police, da Lamborghini a Coin, passando per nomi del calibro di Benetton, Bulgari, Safilo e Ferrero. E così si è passati rapidamente dai primissimi dipendenti ai cinquanta di oggi. Tutti in Young Digitals fanno parte della generazione "Millennials", cresciuti cioè mentre la rete inglobava il mondo ed entrati in ufficio già connessi. Anche Sofia Omar, naturalmente, è una protagonista della netgeneration.
Quando avete deciso di andare a caccia di talenti in mezzo mondo per portarli a Padova?
Il vero salto di qualità lo possiamo far risalire al 2013, grazie al progetto "Digital In The Round". Una sorta di studio-magazine in lingua inglese che analizzava l'ecosistema social e la cultura digitale dei mercati emergenti, i nuovi Paesi di destinazione dell'export italiano.
In che senso il progetto Digital In The Round è stato una molla per la multiculturalità in azienda?
L'obiettivo della ricerca era studiare i mercati emergenti o ex emergenti, a seconda delle possibili definizioni. Mi riferisco in particolare alla Russia, alla Cina, ad alcuni Paesi dell'Africa e del Medio Oriente, al Sud America. Milioni di persone, in alcuni di questi grandi Paesi, usano piattaforme diverse rispetto a Facebook e Google. Solo osservando tutti i diversi scenari digitali, oggi, è possibile essere più influenti e competitivi in un mercato globale. In Cina, ad esempio oltre 200 milioni di utenti utilizzano il principale microblog cinese, Sina Weibo, mentre altrettanti sono connessi a WeChat. In Iran esistono social network locali come Cloob. NetLog o Orkut rimangono invece popolari in molte altre latitudini: in Asia, Sud America e nel mondo arabo. In Russia, altro esempio, esistono piattaforme social locali di grande successo come Vkontakte e Odnoklassniki che seguono logiche strettamente legate al contesto geografico, linguistico e politico. Sono dei mercati enormi, sui quali lavoravamo con alcuni nostri clienti, ma anche aree del mondo dalle quali oggi provengono innovazione e piattaforme di successo. Contemporaneamente, ci eravamo accorti che per il nostro business il mercato interno, quello italiano, era abbastanza saturo. E che avevamo le capacità di portare la nostra esperienza e accompagnare quindi i nostri clienti sui mercati esteri anche su queste piattaforme. Nel 2013 nessuno ci aveva ancora pensato.
Perché ci vuole una competenza specifica per esplorare i nuovi mondi social?
Le piattaforme cinesi e russe hanno dinamiche diverse, richiedono una gestione diversa degli utenti anche ai fini del marketing e della comunicazione. Il nostro approccio specifico è stato pertanto quello della mediazione culturale, che rappresenta anche il nostro valore aggiunto: se vuoi fare business altrove, devi prima conoscere a fondo quell'altrove. In genere le agenzie si affidano a partner in loco. Noi abbiamo scelto di gestire il business
dal nostro quartier generale di Padova, a due ore al massimo dai nostri clienti. Ma per farlo avevamo bisogno di persone che conoscessero a fondo quelle culture e quindi quei mercati. E siamo andati a cercarcele in giro per il mondo, aprendo delle posizioni sui principali social professional. Può sembrare controintuitivo, ma invece di andare ad aprire sedi all'estero, abbiamo scelto di assumere talenti stranieri qui nel Nord Est. Perché è importante che conoscano l'ambiente dove nascono certi prodotti, la cultura italiana e il nostro tessuto industriale.
Da dove siete partiti?
Abbiamo preso una ragazza cinese che viveva in Cina. L'abbiamo cercata attraverso LinkedIn e "colloquiata" via Skype. Siamo poi passati alla Russia, con la stessa procedura: abbiamo incontrato una ragazza russa che in quel periodo studiava a Milano e oggi è a Padova.
Che profili cercavate?
Il nostro obiettivo non era e non è quello della mera traduzione: non è sufficiente, cioè, nella nostra ricerca, la sola competenza linguistica. Ciò che cercavamo e che continuiamo a cercare in altri Paesi è la conoscenza della cultura locale. Così possiamo personalizzare gli interventi sul target di riferimento.
E i mercati tradizionali?
Per un social media manager di lingua inglese abbiamo pubblicato la job position e intercettato un giovane canadese residente però ad Hong Kong che rispondeva alle nostre caratteristiche. Fatto il colloquio via Skype, ci siamo resi conto che il suo valore aggiunto era più alto e abbiamo deciso di prenderlo nonostante le difficoltà delle procedure di immigration che tuttora caratterizzano il nostro Paese. C'è poi una risorsa londinese, una ragazza che ha scelto di lasciare Londra per venire a Padova. Bel salto, non c'è dubbio, anche senza la spinta della Brexit. Cercava una realtà multiculturale e ha scelto noi. Ora è molto contenta. E qualche giorno fa ha iniziato anche un ragazzo degli Stati Uniti.
Chi completa la squadra?
Abbiamo un dipendente sudafricano, un collega di Taiwan, due croati, una collega ucraina e a breve un macedone.
Per inserirli?
Percorso di formazione per entrare nei flussi dell'agenzia e in alcuni casi, qualora si rivelasse utile, focus specifici sui ritmi, temi di lavoro e stile di lavoro in Italia. I cinesi, ad esempio, hanno un approccio alle gerarchie diverso da quello occidentale. Approccio che non va certo per nazionalità, ma per età: essendo la nostra una realtà in cui l'età media è molto bassa, questo poteva rischiare di creare qualche malinteso o disfunzione. Da noi ci sono tutte risorse alla prima o massimo seconda esperienza. Si tratta di un ambiente molto informale, molto flessibile, ma bisogna anche imparare come muoversi dentro questa flessibilità e imparare a non confonderla con altro. Naturalmente organizziamo anche corsi di italiano.
Come si trovano a Padova, in fin dei conti, le vostre risorse provenienti da mezzo mondo?
Padova è una città universitaria, giovane, dinamica, che coniuga a questa vivacità la tranquillità e il confort di una media città italiana a cosiddetta "misura d'uomo". Il mix è molto apprezzato, una specie di benefit. Le persone che decidono di venire da noi sono in genere molto contente della scelta di vita.
La prossima sfida?
Ci stiamo muovendo sul mercato giapponese: una vera sfida perché la diversità culturale è davvero notevole. Ma ce la faremo.