Le variabili nascoste - di Marco Girardo, Caporedattore della Redazione Economia del quotidiano Avvenire e coordinatore di Redazione IMJ
A fine anno si tirano le somme in ogni campo, è inevitabile. Cosa ci ha lasciato il 2015? Quale dunque l'eredità per i mesi che abbiamo davanti? Partiamo dai due fatti che hanno interessato il nostro Paese in un'annata tutto sommato, rispetto a quelle precedenti, abbastanza tranquilla per l'economia domestica. Niente spread rovente, crisi del debito o della liquidità, niente instabilità politica.
Alcuni segnali incoraggianti, seppur timidi, sul fronte della produzione industriale, del Pil, e anche dei consumi, ci sono. Segnali che hanno portato l'Ocse, come ha ricordato nell'editoriale Andrea Benigni, a rivedere al rialzo le stime di crescita. L'Italia nel suo insieme è nel cantiere delle riforme, istituzionali ed economiche: molte già avviate, altre – a partire da quella fiscale e della spending review – ancora abbastanza nebulose a onor del vero. Così, nel corso di un'estate fortunatamente tiepida (nel senso buono del termine), all'improvviso la cronaca economica, pure quella nostrana, è stata dominata dal crollo dei listini cinesi e dalla svalutazione dello yuan continuata ad opera della People's Bank of China fino agli ultimi giorni dell'anno. In un'economia e in una finanza sempre più globalizzate, è evidentemente un fatto che ha una certa rilevanza. Nel breve e nel medio periodo. Ci sono almeno tre considerazioni interessanti che possiamo fare su quanto sta succedendo in Cina.
La supplenza di Pechino e dei Paesi emergenti quale motore di riserva della crescita globale rischia pericolosamente di esaurirsi. E questo ha inevitabilmente delle conseguenze per un Paese come il nostro, un'economia che, solo grazie all'export, è riuscita a limitare i danni, pesantissimi, della più grande recessione dal Dopoguerra a oggi. Cina e India insieme producono quasi un quarto del reddito globale (impensabile senza di loro reggere alla crisi di domanda del triennio 2008-2011). Si tratta di un cambiamento strutturale con il quale una potenza manifatturiera quale è ancora l'Italia nonostante tutto – sono i numeri a confermarlo – deve inevitabilmente confrontarsi, visto che la domanda interna non sarà mai sufficiente a sostenere adeguati tassi di crescita, anche in virtù di una questione demografica, oltre che di attitudine al risparmio più che all'investimento.
In secondo luogo, anche la Cina entra nel novero delle economie in cui la crescita è stata artificialmente alimentata dalla politica delle Banche centrali. Con strumenti vecchi e nuovi, fino alle diverse versioni di Quantitative easing (in salsa Usa, europea, britannica, giapponese e ora persino cinese). La domanda: è vera crescita, questa, o è una crescita drogata dalla politica monetaria e quindi dal denaro a buon mercato? Ma se è una crescita drogata, lo è stata per almeno vent'anni. E cioè dall'ultima rivoluzione tecnologica, l'avvento dei computer al centro e al cuore dei sistemi di produzione. Dalla terza rivoluzione industriale, dunque, quella delle macchine digitali che ha permesso un vero scatto della produttività (l'ultimo registrato nella storia economica recente).
Ebbene, dagli anni Novanta, secondo uno studio della Banca dei regolamenti internazionali, con la liberalizzazione dei movimenti di capitale e la globalizzazione, il ciclo finanziario – all'interno del quale la mutevole percezione del rischio e dei valori conduce all'accumulo di debito privato e pubblico con conseguenti boom e successivi crolli dei mercati – ha preso il sopravvento sul ciclo economico reale. Cosa significa in questo contesto lo "zero virgola" in più o in meno di Pil? Detto in altri termini: non si possono capire le fluttuazioni del ciclo economico se non si capisce il ciclo finanziario. E in tal senso l'economia italiana risente ancora della recessione patrimoniale innescata dalla crisi finanziaria del 2008.
Infine siamo in "acque inesplorate" – per usare un'espressione molto efficace di Mario Draghi, governatore della Bce – perché è impensabile che i Paesi emergenti crescano ancora ai ritmi degli anni Duemila e facciano oggi da supplenti. Quelli avanzati, poi, potrebbero non avere tassi di crescita "reali" (indotti cioè da un aumento della produttività) e non dalle politiche monetarie. Per proseguire la crescita oltre la soglia del reddito medio è indispensabile infatti una crescita della produttività e non un impiego più intensivo del capitale. E la crescita nei Paesi sviluppati sta rallentando, con l'Italia ancora molto indietro.
Il secondo fatto economico del 2015 è stato l'esplodere in Europa dei fenomeni migratori. L'elemento demografico è il secondo fattore economico rilevante di cui bisogna tener conto ragionando sul medio-lungo periodo. E lo sarà sempre di più. Nel 1950 c'era un solo Paese europeo fra i dieci più popolosi al mondo: la Germania, in sesta posizione. Oggi non se ne conta alcuno e nel 2050 persino la Russia sparirà dalla graduatoria, con gli Stati Uniti per la prima volta fuori dal podio. Secondo il Pentagono, nel tracciare i suoi scenari geo-strategici, il fenomeno delle migrazioni interesserà l'Europa per i prossimi vent'anni. Una generazione intera. È evidente come la questione delle migrazioni non possa in alcun modo essere affrontata da un singolo Paese, ma solo dall'Europa nel suo insieme. Ed è altrettanto evidente che come gli Stati Uniti sono una società di immigrati, l'Europa, volente o no, lo diventerà. Anche qui due considerazioni. Il modello americano mostra che una società multietnica può funzionare assai bene, a patto che ci siano adeguati investimenti in organizzazione e merito del sistema scolastico e universitario (interessanti in tal senso gli studi di Roger Abravanel e Roberto Perotti). Per questo una sfida economica per il nostro Paese sarà sempre più quella di creare un assetto formativo che tenga conto della mutazione dell'assetto sociale e ne sappia valorizzare le potenzialità e non solo gestire le difficoltà. È necessaria poi una ristrutturazione del Welfare sociale, con il contributo del Welfare aziendale, che elimini gli sprechi e sappia recepire i benefici della nuova ricchezza demografica e lavorativa: è ormai risaputo che la generosità fiscale è quasi sempre verso gli appartenenti allo stesso gruppo, nel senso che si è disposti a sopportare un maggior carico fiscale solo se il beneficio va a questo. La redistribuzione va quindi pilotata verso una maggiore efficienza, visto che i lavoratori immigrati contribuiscono oggi per circa il 9% alla fiscalità generale. Per quel che concerne l'Italia, si diceva, alcuni indicatori economici hanno iniziato a muoversi. Ma questo accade dopo anni durissimi in cui centinaia di migliaia di imprese hanno dovuto chiudere: l'Italia ha perso un milione di posti di lavoro, il numero di famiglie in difficoltà è raddoppiato (fino a superare il 30%, nel 2012-2013), il Pil è diminuito di circa il 10% e la capacità produttiva del sistema economico si è contratta del 25%. Il sociologo Luca Ricolfi ha analizzato gli effetti della crisi sul nostro tessuto del lavoro. Arrivando a conclusioni, pubblicate da Il Sole 24 Ore, particolarmente interessanti. Se come punti di riferimento, spiega Ricolfi, consideriamo i due picchi estremi della crisi, ossia il 2008 e il 2014, i posti di lavoro perduti sono 954 mila. Questa distruzione di posti di lavoro, tuttavia, è il saldo fra le perdite di alcune categorie di lavoratori e gli incrementi di altre. I lavoratori di nazionalità italiana, ad esempio, hanno perso 1 milione e 650 mila posti, ma i lavoratori stranieri ne hanno guadagnati circa 700 mila. I lavoratori relativamente giovani (under 45) hanno perso 2 milioni e 700 mila posti, ma quelli relativamente vecchi (over 44) ne hanno guadagnati quasi 1 milione e 800 mila. E dentro ciascuna di queste categorie, le donne occupate sono sempre andate meglio dei maschi. L'apparato produttivo dell'economia italiana, conclude il sociologo, si è ristrutturato privilegiando i vecchi sui giovani, le donne sugli uomini, gli stranieri sugli italiani. E inoltre, è il caso di notarlo, questa ristrutturazione è avvenuta con pochi investimenti e senza alcun aumento di produttività. Stimolante pure il paragone con quanto è successo dopo la crisi che seguì lo storico boom italiano a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, dopo gli anni della "congiuntura" (1964-1965). Anche allora quello cui si assistette fu un processo di profondissimo rimescolamento della forza lavoro: l'apparato produttivo, a quei tempi dominato dall'industria e basato sulla grande fabbrica, puntò tutte le sue carte sui capofamiglia maschi "nel fiore degli anni" (definizione di Marcello de Cecco), emarginando progressivamente le fasce deboli e non adatte ai ritmi e alle condizioni di un'organizzazione del lavoro di tipo tayloristico. La produttività riprese a crescere, ma più grazie alla qualità della forza lavoro che agli investimenti o alla ricerca di una diversa specializzazione. Oggi, apparentemente, sta succedendo l'esatto contrario: il lavoratore maschio "nel fiore degli anni" perde posizioni, e le imprese sembrano puntare soprattutto sulle fasce deboli o tradizionalmente considerate tali: donne, stranieri, lavoratori relativamente anziani. A noi gli immigrati, le donne e i lavoratori (relativamente) anziani possono apparire fasce deboli della forza lavoro, ma si potrebbe invece supporre che, dal punto di vista di chi fa impresa, ora che l'era della grande fabbrica è finita e l'economia si è terziarizzata, sia semmai il contrario. Sul tema della produttività, invece, si è soffermato più volte nel corso del 2015 il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan. E lo ha fatto pure il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, nelle ultime Considerazioni Finali. Riprendendo alcuni spunti da un libro, "La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell'era della tecnologia globale" di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee. Per i due studiosi americani siamo negli anni della quarta rivoluzione industriale, quella del digitale, in un'era in cui la potenza di calcolo ha fatto un salto di qualità incommensurabile. Ebbene: in questi anni la produttività non è salita quanto ci si potrebbe aspettare.
La stessa cosa era accaduta negli anni Settanta, quando sono arrivati i primi computer: per vedere un aumento della produttività si è dovuto aspettare vent'anni, e cioè gli anni Novanta. Ed era successo anche all'epoca della seconda rivoluzione industriale, quella del motore elettrico. Con l'avvento dell'elettricità nelle fabbriche, la produttività del lavoro non aumentò per vent'anni. Per quale ragione? Perché il motore della fabbrica, alimentato a energia, venne lasciato al centro dello stabilimento, dove prima doveva starci per necessità quello a vapore, che lo distribuiva poi tutte le postazioni. Il beneficio arrivò solo trent'anni dopo, quando furono costruite fabbriche con planimetrie diverse: invece di un unico immenso motore al centro dello stabilimento ce n'erano tanti piccoli, che alimentavano le singole macchine e le singole postazioni. Solo allora la produzione del lavoro s'impennò. Cosa insegnano questi due precedenti? Che le innovazioni complementari più importanti, quelle che danno l'aumento della produttività, sono i cambiamenti dei processi aziendali e convenzioni organizzative rese possibili dalle nuove tecnologie. In questo una società come ECA Italia può garantire un valore aggiunto fondamentale per le imprese. L'Italia, infatti, sembra abbia ancora molta strada da fare. Perché è probabilmente questa la sfida più grande che hanno davanti le piccole, medie e alcune grandi imprese italiane per aumentare la produttività e quindi la competitività in uno scenario globale: la sfida della conoscenza, dell'investimento in conoscenza, in saperi che integrino quelli tradizionali, di cui siamo ricchi, con quelli digitali e organizzativi. A partire dalla formazione e dalla gestione delle risorse umane: operai, impiegati e manager.