Lavorare sulle differenze culturali, l'unica risposta al fanatismo - di M. Girardo IMJ n° 62

Nel cuore dell'estate l'odio cieco del fanatismo omicida ha colpito a Dacca, nel lontano Bangladesh. Ha colpito e strappato la vita anche a nove nostri connazionali, donne e uomini nati e cresciuti in Italia e volati in Oriente per lavoro. Un odio cieco, quello dei fanatici islamici, perché non è capace di vedere proprio gli uomini e le donne in carne e ossa, le persone vere, ma solo di perseguire l'aberrazione di una presunta purezza pseudo-religiosa che intende punire "lo stile di vita" del nemico Occidente e soprattutto la libertà che l'Occidente proclama, custodisce e difende.

Libertà di espressione, anzitutto, come nei concerti del teatro Bataclan a Parigi o nella redazione di un giornale. O libertà di movimento, come nelle metropolitane di Londra e Bruxelles, nei treni spagnoli, negli aeroporti e stazioni ferroviarie. O, ancora, libertà di festa e condivisione, come negli stadi capaci di accogliere grandi eventi sportivi, nei centri commerciali o sul lungomare di Nizza, dove le famiglie si ritrovano per assistere a uno spettacolo pirotecnico.

A Dacca la follia omicida ha colpito la libertà di movimento per lavoro, uno dei simboli di un mondo sempre più globalizzato, in cui il lontano Bangladesh è in realtà a noi vicino e quasi dietro l'angolo. Erano,

infatti, quasi tutti imprenditori e manager del tessile, gli italiani uccisi in Bangladesh. Espatriati o expats, come spesso li chiamiamo in linguaggio "tecnico". Ma questa volta è necessario e giusto che una denominazione utilizzata sempre dagli addetti ai lavori per questioni procedurali, fiscali o di gestione delle risorse umane, sia declinata in storie, nomi, cognomi e volti. È doveroso che s'incarni per ricordare e onorare. Per non cedere alla spersonalizzazione dell'ideologia omicida e suicida. Per rispondere ancora una volta con la memoria e l'eredità di chi ha saputo e voluto costruire – relazioni, ponti sociali, imprese, sviluppo – e non con la cieca follia di chi intende solo distruggere. Eccoli, allora, i nostri expats.

Simona Monti aveva il biglietto in tasca per rientrare in Italia, a Magliano Sabina, provincia di Rieti. A Dacca era impiegata in un'azienda tessile gestita dall'imprenditrice di Viterbo Nadia Benedetti, morta anche lei nell'attentato. Simona era sbarcata in Bangladesh l'estate scorsa con il suo bagaglio di lingue e professionalità, dopo un'esperienza di lavoro in Cina. Giovane espatriata di lungo corso, dunque. Come Claudia D'Antona e Gian Galeazzo Boschetti, moglie e marito, nel Paese da vent'anni per gestire un'azienda tessile, ma anche per dedicare parte del loro tempo alla missione umanitaria Interethnos Interplast Italy Onlus. Ogni anno la loro abitazione diventava la base di un gruppo di medici italiani che veniva in Oriente per curare malati, in particolare donne sfregiate dall'acido. A Gianni quella sera nel ristorante è suonato il telefono, per una pura casualità è uscito in giardino e poi è riuscito a scappare. Claudia è rimasta dentro, nel locale, dove ha incontrato una morte assurda.

Anche Marco Tondat, 39 anni, di Cordovado in provincia di Pordenone, era un imprenditore nel settore tessile. Aveva scelto il Bangladesh per ricominciare. Stessa decisione presa da Claudio Cappelli, 45 anni: aveva deciso nel 2011 di trasferire il suo laboratorio a Dacca. E imprenditori del tessile erano pure Vincenzo D'Allestro, 46 anni, all'Holey Artisan Bakery in compagnia dei colleghi di lavoro, tra cui Nadia Benedetti e Cristian Rossi, che dopo aver lavorato per il Gruppo Bernardi fin dai primi anni '90 – «Proprio lui ha aperto il primo ufficio in Bangladesh e successivamente quello in Cina», ha ricordato nei giorni scorsi una sua ex collega – da tre anni si era messo in proprio. A Dacca si fermava per lunghi periodi, ritenendola una città tranquilla. Quanto ad Adele Puglisi, nella sua città d'origine, Catania, si fermava al massimo venti giorni l'anno. Era sempre in giro per il mondo. Amava il suo lavoro da espatriata. Prima nello Sri Lanka, poi a Dacca, dal 2014, come Manager Quality Control dell'azienda Artsana. Probabilmente la cena al ristorante Holey Artisan Bakery era per salutare l'amica Nadia Benedetti. Maria Riboli, infine, avrebbe compiuto 34 anni il prossimo 3 settembre. Anche nel suo cassetto da expat c'erano tonnellate di sogni e progetti di lavoro per l'impresa di abbigliamento in cui era impegnata.

Ai fanatici della purezza, cresciuti in famiglie agiate, non importava nulla se è proprio puntando sulla grande capacità di attrarre imprenditori occidentali che il Bangladesh, negli ultimi anni, è riuscito a diventare uno dei poli manifatturieri del Continente asiatico. Al centro di questa corsa c'è proprio il tessile, che produce oggi il 13% del Pil, rappresenta l'80% dell'export e occupa quattro milioni di persone. Certo, nel settore si rispecchiano molte delle contraddizioni socio-economiche che caratterizzano il Paese asiatico. La tragedia del Rana Plaza, di cui la scorsa primavera ricorreva il terzo anniversario, ne è stata forse il simbolo. Ma ha rappresentato anche l'occasione per avviare un percorso di riscatto. La tragedia in cui persero la vita 1.138 lavoratori ha infatti prodotto una globale e fortissima – come forse mai prima – chiamata alla responsabilità per i marchi internazionali del tessile, anche italiani, che si rifornivano da alcune delle fabbriche ospitate in quell'edificio. Ne è nato, già nel 2013, l'Accordo per la sicurezza e la prevenzione degli incendi, arrivato a coinvolgere 190 marchi e multinazionali, 1.600 fabbriche e circa 2 milioni di lavoratori del Bangladesh. Producendo miglioramenti delle condizioni di lavoro e maggiore trasparenza informativa sul settore.

Sicuramente è ancora più difficile – se non impossibile – smontare la convinzione dei visionari. Ma non si può e non si deve opporre follia alla follia. Quello che si può fare è onorare, ricordare e lavorare perché i valori rappresentati da chi è stato ucciso dal fanatismo sedimentino, nel tempo proprio perché portatori di uno "stile di vita" che sa e vuole costruire, mai distruggere. Lavorare anzitutto nelle nostre aziende sulle differenze culturali, che arricchiscono e non impoveriscono. Che allargano la vista, non la restringono. Che costituiscono forse l'unico anticorpo per il virus dell'ideologia che vorrebbe annullare ogni differenza.