Marco Polo e Turandot: il primo passo per studiare e lavorare nel nostro Paese - di Francesco Boggio Ferraris, Responsabile della Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina
Gli atti di un fondamentale convegno che si tenne qualche anno fa, nel 2010, per la precisione, sulle strategie didattiche da riservare agli studenti cinesi che eleggono il nostro Paese come meta di studio e formazione in vista di una successiva carriera internazionale, si aprono con una suggestione illuminante. Non vi è incontro pubblico, riunione bilaterale, momento diplomatico o semplice cena informale tra partner italiani e cinesi che non registri, a un certo punto, un doveroso ma - diciamoci la verità - retorico accenno a Matteo Ricci. Li Madou, per quasi un quinto dell'umanità. Gesuita maceratese vissuto a cavallo tra il XVI ed il XVII secolo e padre putativo della storia di questo incontro tra civiltà. Fu il grande scienziato e dotto letterato della Compagnia di Gesù infatti ad intravedere tra i primi la grandeur di un popolo del quale in Occidente permanevano solo i fantasmagorici echi dei racconti di Marco Polo.
Cinque anni fa a Roma, in occasione del XV seminario AICLU (Associazione Italiana Centri Linguistici Universitari) si metteva in luce efficacemente quanto la non infrequente difficoltà nella comunicazione tra le nostre due culture abbia radici profonde, strutturali e si sia manifestata sin dall'antichità. A partire dalla lingua. Si legge che in una sua lettera da
Macao, datata 13 febbraio 1583, Matteo Ricci, allora importante ambasciatore della cultura italiana in Cina, scriveva a un confratello:
Subito mi detti alla lingua cina et prometto a V. R. che è altra cosa che né la greca, né la todesca; quanto al parlare è tanto equivoca che tiene molte parole che significano più di mille cose, et alle volte non vi è altra differentia tra l'una e l'altra che pronunciarsi con voce più alta o più bassa in quattro differentie de toni; e così quando parlano alle volte tra loro per potersi intendere scrivono quello che vogliono dire; ché nella lettera sono differenti l'una dell'altra. Quanto alla lettera non è cosa per potersi credere se non da chi lo vede o lo prova come ho fatto io. Ha tante lettere quante sono le parole o le cose, di modo che passano di settanta mila, e tutte molto differenti et imbrugliate; [...] Tutte le parole sono d'una sola sillaba; il loro scrivere più tosto è pingere; e così scrivono con pennello come i nostri pintori. Tiene questa utilità che tutte le nationi che hanno questa lettera, se intendono per lettere et libri, benché siano di lingue diversissime, il che non è con la nostra lettera. Per il che il Giappone, et Sian e Cina, che sono regni molto distinti e grandi, di lingua anco toto coelo diversa, se intendono insieme molto bene e l'istessa lettera potrebbe servire a tutto il mondo1.
Da una lettera di più di quattrocento anni fa, si evincono già tutti quegli aspetti che rendono lontanissimi i nostri idiomi e che non sarebbero poi cambiati nei secoli successivi, fino ad arrivare ai nostri giorni immutati e forieri di nuove sfide comunicative. Ora, attraverso un quotidiano dialogo con le più internazionalizzate delle aziende italiane, abbiamo appreso in questi ultimi anni che esiste un communication affaire in qualsiasi ufficio, nel nostro Paese o in Asia, all'interno del quale il team di lavoro sia composto da dipendenti italiani e cinesi. Issues, si direbbe più correttamente in inglese.
Non veri e propri problemi, ma questioni da prendere in seria considerazione. La nostra ansia, unita ad un atteggiamento spiccatamente eurocentrico che riserviamo costantemente a qualsiasi analisi della realtà, ci impedisce di provare ad osservare questo fenomeno dall'altro lato della barricata.
Chi sono i nostri nuovi colleghi cinesi? Dove hanno studiato italiano? Hanno incontrato le stesse difficoltà che noi fronteggiamo quando studiamo cinese? Quale delle due lingue è più complessa da apprendere? Oggi, il settore dell'education, insieme a quello turistico e a quello del lusso e del Made in Italy, vive di nuove cifre e l'Italia può sfoggiare notevoli fattori di attrattività per conquistare una fetta interessante del mercato cinese della formazione.
Questo ci porta ad aprire una finestra sul progetto scelto dalla maggior parte degli studenti cinesi che riempiono i nostri atenei: il programma Marco Polo e Turandot. Sviluppato dalla CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) su diretta sollecitazione della Presidenza della Repubblica Italiana, è progettato per incrementare la presenza di studenti cinesi nelle nostre Università. Il progetto costituisce un'importante iniziativa di sistema ed è stato presentato ufficialmente a Pechino il 6 dicembre 2004 dalla CRUI nell'ambito della visita di Stato del Presidente della Repubblica Italiana nella Repubblica Popolare Cinese. Il quadro all'interno del quale si inserisce prevede il rafforzamento delle relazioni istituzionali tra Italia e Cina, tassello determinante per la realizzazione del programma.
Il Comitato Governativo Congiunto Italia-Cina, attivato a maggio 2004, rappresenta la piattaforma all'interno della quale è stato predisposto un Memorandum di Intesa, per ribadire l'impegno delle due Parti alla cooperazione anche nel settore dell'istruzione e della formazione, in particolare per agevolare l'iscrizione degli studenti cinesi in Italia. Il tavolo di lavoro che ne è scaturito ha lavorato durante il 2005 e 2006 per creare le condizioni di contesto necessarie, formalizzando una serie di pratiche che oggi ci consentono di fare sistema in Cina attraverso momenti e strumenti di promozione del sistema accademico nazionale, semplificazione delle procedure per il rilascio dei visti e per l'immatricolazione degli studenti cinesi, identificazione delle disponibilità accademiche in termini di accoglienza e servizi e disponibilità di corsi di lingua italiana.
La fotografia che se ne può ricavare oggi è illuminante, per aiutarci a comprendere quanto nella pianificazione del proprio futuro formativo, e poi professionale, i giovani cinesi guardino all'Italia con crescente interesse. I contingenti Marco Polo e Turandot dell'a.a. 2014/15 hanno registrato un totale di 2.465 studenti. La conferma di quanto sia positivo il trend la si ottiene osservando che nel 2008/09 gli studenti cinesi giunti in Italia attraverso il programma erano in totale 766. Insomma, nell'arco di sei anni abbiamo assistito ad una crescita del 222%. Ed è proprio scavando tra i numeri che si ottengono le suggestioni più interessanti. In merito all'affermazione di poco sopra sul maggiore appeal esercitato dagli studi artistici, i dati ci raccontano che, ad esempio, la Conferenza dei Direttori dei Conservatori di Musica segnala che nell'a.a. 2013-14, considerando gli iscritti stranieri ai soli corsi superiori si arriva a 1.868 su un totale di 20.842. In altre parole, il 9% dell'intera popolazione studentesca con indirizzo musicale. Di questi, gli studenti cinesi sono stati 658, pari al 35,2% degli iscritti stranieri. Circa il 90% di loro era iscritto a corsi di canto lirico2 . La ricerca delle motivazioni profonde di questo fenomeno porta ad analisi socioculturali che in questa sede è difficile dettagliare, ma che spingono i ricercatori a considerare l'anelito dei giovani cinesi verso un romanticismo ed un decadentismo che trent'anni di Maoismo e quaranta di socialismo a caratteristiche cinesi hanno, nella migliore delle ipotesi, contribuito a reprimere. Non che manchino gli studenti di giurisprudenza o ingegneria, sia chiaro, ma il futuro pare essere del progetto Turandot, che si distingue dal Marco Polo proprio perché destinato ai soli artisti, mentre quest'ultimo coinvolge gli studenti delle facoltà scientifiche ed umanistiche.
Quanti di questi ragazzi diventeranno giovani professionisti del loro settore nel nostro Paese? Quanti sapranno coniugare le esigenze dettate dalla loro lontana cultura con uno stile di vita e un modo di lavorare così diverso? Difficile dare risposta a queste domande, soprattutto perché sono passati pochi anni dall'avvio di un progetto così grande e complesso e che, soprattutto, vive di costanti e intense modifiche, nel perenne tentativo di colmarne lacune nell'impianto e nelle finalità. A cambiare con grandissima rapidità, va poi osservato, è la natura stessa di una generazione di giovani che sembra bruciare le tappe di un'assimilazione forzata a vizi e virtù del nostro Occidente. Ne consegue che, se anni fa il ritratto medio dello studente cinese era ancora sufficientemente tratteggiato da una educazione confuciana che lo avvicinava ad un apprendente disciplinato, modello, oggi si apre un dibattito sulla ricerca di strategie per arginare assenteismo in classe, scarsi risultati e comportamenti problematici. Tutte questioni che abbiamo imparato a conoscere in noi stessi. Per concludere, si può facilmente immaginare che, nonostante le numerose difficoltà e grazie alle qualità di centinaia di professori, ricercatori e operatori di un mondo accademico forte di una tradizione di secoli nell'insegnamento della lingua italiana - basti pensare alle storiche Università per Stranieri di Siena e di Perugia, mete di studio ogni anno di quasi 1.000 studenti provenienti da Pechino, Shanghai, Chongqing e numerose altre città cinesi - i nostri due mondi saranno sempre più interconnessi.
Quotidiano è lo sforzo di perfezionare questo processo, anche in nuove sedi, come nel caso della Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina, che dirigo e nel cui contesto è possibile scoprire oggi molte delle caratteristiche del progetto qui riportate. C'è da scommettere che le spiccate qualità di questi ragazzi ci riserveranno molte sorprese nell'immediato futuro, quando sarà finalmente normale che un designer, un responsabile dell'ufficio stile, un violinista o un pittore lavorino nel nostro Paese pur avendo gli occhi a mandorla.
1) La didattica dell'italiano a studenti cinesi e il progetto Marco Polo. Atti del XV seminario AICLU, Roma 19 febbraio 2010, a cura di Elisabetta Bonvino e Stefano Rastelli, Pavia University Press
2) Convegno sui programmi governativi Marco Polo e Turandot. Studio pubblicato da Uni-Italia, 3 febbraio 2015 Roma