L'IMPATTO FISCALE DELL'ESPATRIO
Francesca Romana Rubino - Senior Tax Consultant ECA Italia - illustra le ricadute della risoluzione dell'Agenzia delle Entrate sul calcolo del credito d'imposta per i dipendenti che, pur mantenendo la propria residenza fiscale in Italia prestano all'estero la propria attività a determinate condizioni.
Come ormai ampiamente noto, l'Agenzia delle Entrate con la risoluzione 48/E dell'8 luglio 2013 ha chiarito i criteri di determinazione del credito d'imposta ai sensi di quanto previsto dal comma 10 dell'art. 165 del TUIR per quei dipendenti che, pur mantenendo la propria residenza fiscale in Italia, prestano all'estero la propria attività alle condizioni di cui al comma 8 bis dell'art. 51 del TUIR. In particolare, l'Agenzia delle Entrate ha precisato che ai sensi della disposizione sopra richiamata le imposte versate all'estero a titolo definitivo devono essere "ridotte proporzionalmente al rapporto tra la retribuzione convenzionale determinata in base all'art. 51, comma 8-bis del TUIR, e il reddito di lavoro dipendente che sarebbe stato tassabile in via ordinaria in Italia". Secondo le nuove indicazioni dell'Agenzia, quindi, l'ammontare delle imposte estere che può essere preso a credito deve essere determinato con la seguente formula:
Imposte detraibili = Imposte pagate all'estero a titolo definitivo X Retribuzione convenzionale ex art. 51,
comma 8bis TUIR / Reddito estero determinato ex art. 51 commi 1 – 8
Scopo del presente articolo non sarà quello di affrontare i dubbi interpretativi in tema di "riqualificazione" del reddito estero, né tanto meno quello relativo alle incertezze sul tipo di documentazione che dovrà essere raccolta al fine di certificare l'importo del reddito estero rideterminato (questioni ancora irrisolte in mancanza di un intervento chiarificatore da parte dell'Agenzia), ma si cercherà, più semplicemente, di quantificare l'impatto fiscale complessivo dell'espatrio sulla base delle nuove regole, e questo attraverso la presentazione di casi pratici.
Si ipotizzi, ad esempio, il caso di un dipendente, fiscalmente residente in Italia, che presta la propria attività in Spagna tutto l'anno, assoggettato a tassazione in Italia su base convenzionale e nel paese estero tassato con un'aliquota del 24,75% applicata al totale dei guadagni "spagnoli" (si tratta del regime agevolativo – introdotto in Spagna nel 2004 dalla cosiddetta "legge Beckham", che permette di beneficiare di un'aliquota scontata per i primi cinque anni di espatrio). Alla situazione del lavoratore corrispondono i seguenti valori:
- Retribuzione convenzionale imponibile ex art. 51, comma 8 bis: € 80.000
- IRPEF su retribuzione convenzionale: € 27.570
- Retribuzione rideterminata ex art. 51, commi 1-8, TUIR: € 95.000
- Imponibile in Spagna: € 110.000 (il regime agevolativo di cui si è accennato, non consente, infatti, di fruire di alcuna deduzione)
- Imposte spagnole 24,75%: € 27.225
Operando il calcolo del credito d'imposta secondo lo schema applicato prima della pubblicazione della Risoluzione n. 48/2013, il credito sarebbe stato pari a € 19.800 (27.225*80.000/110.000). La determinazione del credito secondo le regole "introdotte" dalla Risoluzione n. 48/2013 porterà, invece, a un diverso risultato poiché, al denominatore, l'imponibile estero (determinato sulla base delle regole del
Paese di lavoro) sarà sostituito dall'importo di reddito rideterminato su base ordinarie (sulla base, cioè, delle diposizioni di cui ai commi da 1 a 8 dell'art. 51 del TUIR). In tal caso, dunque, il credito sarà pari a € 22.900 (80.000 / 95.000 * 27.225).
Può anche verificarsi – ed anzi è una situazione più frequente di quanto si possa pensare – che la rideterminazione dell'imponibile seconde le norme italiane porti a un valore superiore all'imponibile determinato secondo le regole di tassazione del Paese della fonte; ciò può accadere nel caso in cui nella base imponibile estera non rientrino alcuni elementi invece tassabili in Italia, come potrebbe essere a seguito di regimi agevolativi applicabili all'estero (al personale espatriato) e che, di norma, consentono una parziale o totale esenzione del trattamento aggiuntivo corrisposto in funzione della circostanza dell'espatrio.
Si ipotizzi, ad esempio il caso di un dipendente, fiscalmente residente in Italia, che presta tutto l'anno la propria attività in Francia, dove per i primi cinque anni è prevista l'esclusione dall'imponibile di gran parte delle indennità aggiuntive connesse all'espatrio. Alla situazione del lavoratore corrispondono i seguenti valori:
- Retribuzione convenzionale imponibile ex art. 51, comma 8-bis: € 80.000
- IRPEF su retribuzione convenzionale: € 27.570
- Retribuzione rideterminata ex art. 51, commi 1-8, TUIR:€ 95.000
- Imponibile in Francia: € 70.000
- Imposte francesi circa 35%: € 24.500
In tale situazione, si otterrà un minore credito di imposta per le imposte pagate all'estero; se, infatti, con le regole applicate prima della risoluzione, il lavoratore avrebbe potuto fruire di un credito pieno (l'intera imposta francese avrebbe potuto essere, cioè, portata in detrazione della quota di imposta italiana afferente i redditi esteri), con le nuove regole – (80.000 / 95.000) * 24.500 = € 20.600 – il credito d'imposta si riduce di quasi € 4.000.
Come si evince dagli esempi riportati, la nuova interpretazione dell'Agenzia in tema di credito d'imposta per imposte estere non implica necessariamente uno svantaggio per il lavoratore. L'unica cosa certa è che le nuove regolare costringono i contribuenti interessati a calcoli complessi e l'effetto fiscale varia a seconda casi.
A quanto sopra esposto si aggiunga che la sempre maggiore complicazione del quadro fiscale in Italia fa si che diventi sempre più difficile quantificare anticipatamente gli effetti fiscali complessivi dell'espatrio, rendendo così difficile gestire, in corso di distacco estero, la relazione con gli espatriati.
Ad avviso di chi scrive, l'unica possibilità di consentire all'espatriato una valutazione certa dell'impatto che il distacco estero avrà sul suo reddito da lavoro, è quella di adottare un'opportuna politica di neutralità fiscale, basata sul concetto che il lavoratore espatriato non debba essere assoggettato ad un carico fiscale superiore a quello che avrebbe sopportato in Italia nel caso in cui avesse continuato a svolgere la sua attività in territorio italiano.
E su questa linea stanno cominciando a muoversi anche molte aziende italiane.